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Il giro dell’oca - Erri De Luca


A chi non è successo di immaginare un dialogo con qualcuno che non c’è? 

Impossibile non averlo fatto. È un’esperienza comune quella di simulare nella mente una conversazione, anticipare un discorso che vorremmo fare, ipotizzare domande e risposte, inventare le parti, supporre l’andamento di un incontro. 

Capita. Lo facciamo tutti. Io, per esempio, in vista di una riunione importante, magari con la direzione, parto con il loop del “io dirò X e allora loro diranno Y, quindi io dirò Z e se loro risponderanno che Z=W, mi arrabbierò e me ne andrò!” 

Si ok, io sono decisamente poco tollerante e troppo concreta. 

Fortunatamente Erri De Luca, nell’utilizzo di questo artificio mentale, è decisamente più poetico e profondo e, trasferendo la propria fantasia sulla carta, ci ha regalato una splendida autobiografia. 

È andata più o meno così.

È sera, l’autore è solo, nella sua abitazione salta la corrente. Facendosi luce con una candela, rilegge la celebre storia di Pinocchio e... si ritrova ad immaginare di avere un figlio. 

Non c’è la bottega di Geppetto, non c’è la legna da sagomare ma c’è l’idea, l’idea di un figlio, c’è l’illusoria percezione della sua presenza e di un dialogo toccante con lui. Dialogo che diventa via via più intimo e confidenziale con questo figlio mai avuto, mai nato, che esiste però, in quell’unico momento, nella sua anima, nel suo pensiero. 

“No papà, non resto. Domattina al risveglio non mi troverai. La tua tavola continuerà a essere apparecchiata per te solo”.

Il figlio immaginato è un romantico pretesto per parlare di sé, per raccontarsi, per ripercorrere stralci di vita e aneddoti, per ricordare momenti e persone. 

È un libro profondo perché è nel profondo che De Luca scava per portare in superficie il senso di una vita, la sua. 

Ho un corpo e sono stato al gioco di viverci dentro. 

Che gioco? Il gioco dell’oca. Si tira un dado e ci si sposta in un circuito a spirale.

È un gioco di percorso (...).

Il corpo è il gioco, io sono la pedina”. 

Lo stile è poetico, direi proprio una “prosa poetica”, dove la PAROLA non è mai casuale ma anzi è ricercata, celebrata. 

“Non lo sai dire, non sai dire < mio >, lo hai detto piano, una veloce sillaba di passaggio. 

Mio: è una dichiarazione di affetto, di certezza, di vincolo di sangue...”

Questo testo è il racconto melanconico di una vita, di ciò che non è stato e di ciò che è passato, è la rievocazione di valori indissolubili come le ideologie politiche, il senso di giustizia e di uguaglianza, ma è anche la confessione di un uomo che si misura con le proprie fragilità, con la solitudine e con i ricordi.

È il viaggio nella mente di uno scrittore che affascina sia per l’abilità narrativa che per le doti letterarie e intellettuali. 

Quindi. Sarà pur vero che tutti noi facciamo voli pindarici ricreando nella mente conversazioni immaginarie, ma De Luca di questa abitudine propria dell’essere umano, ne ha fatto un piccolo grande capolavoro di stile e contenuto. 


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